Aldo Bianzino, morto due anni fa in una prigione di Perugia per cause
ancora da chiarire. Marcello Lonzi, ammazzato in una galera livornese
nel 2003 da un arresto cardiocircolatorio ma il suo corpo sfigurato, a
sua madre che cerca ancora verità, dice tutt'altro. Fino a
l'altroieri, Ilaria non conosceva i loro nomi, forse nemmeno sapeva
quanto fosse lungo il catalogo dei morti di galera. Poi i carabinieri
di Torpignattara hanno bussato a casa loro per dire che semplicemente
«Stefano era morto», in ospedale. Più precisamente nel reparto
penitenziario del Pertini. Ora la famiglia chiede di poter vedere la
salma prima che sia ricomposta. Vuole accedere al più presto alle foto
dell'autopsia. Perché, finora, le due cose sono state negate.
Stefano aveva 31 anni, faceva il geometra in uno studio comune con il
padre e la sorella. La notte tra il 15 e il 16 ottobre lo pescano con
20 grammi di sostanze nel vicino quartiere Appio Claudio. Le modalità
dell'arresto e del sequestro non sono ancora note alla famiglia.
All'una e mezza di notte di notte, il citofono di casa Cucchi segnala
l'arrivo di Stefano. Non è solo. Con lui ci sono i militari che lo
hanno arrestato. Perquisiranno solo la sua cameretta, senza perlatro
trovare nulla. Uscendo, uno di loro cerca di rassicurare la madre:
«Signora non si preoccupi. Per così poco è capace che domani sia a
casa ai domiciliari».
Dettaglio importante: Stefano «era pulito», racconta Ilaria nella sala
d'aspetto dell'obitorio di Piazzale del Verano. Ossia «camminava sulle
sue gambe, non aveva segni sul viso». E ricorda quanto fosse esile suo
fratello. Basso e magrissimo. Il mattino appresso suo padre va a
Piazzale Clodio all'udienza per direttissima. Stefano aveva il viso
livido e gli occhi gonfi. L'udienza è rinviata al 13 novembre. Si
torna a Regina Coeli. Il sabato sera, l'indomani, i carabinieri
arrivano a casa Cucchi per comunicare il ricovero al Pronto soccorso
dell'Isola Tiberina. Si scoprirà, invece, che era stato portato al
Pertini. Motivo ufficiale: dolori alla schiena dovuti a una caduta
precedente all'arresto di cui in casa nessuno sa nulla. Ma una lastra
dirà che aveva due vertebre rotte, una sacrale e una lombare, due
vertebre basse. Si può camminare per tre giorni con due vertebre
rotte, andare a casa, poi in carcere, quindi al processo e di nuovo in
galera? Bisognerebbe sapere quanto siano profonde quelle lesioni. Ma
sicuramente il dolore sarebbe stato evidente. E per capire quando si
siano verificate ci sarebbe da osservare l'emorragia attorno alle
vertebre.
Quella sera i genitori di Stefano sono scappati in ospedale ma fu
spiegato loro - era la prima volta che si trovavano in quelle
condizioni - che era un carcere a tutti gli effetti. Non era possibile
vederlo, né avere notizie senza una carta del pm. La stessa cosa si
sarebbero sentito dire la domenica mattina. Lunedì la carta non è
ancora arrivata. «Ma perché è qui?», riescono a domandare a una
poliziotta. «Non vi preoccupate, vostro figlio è tranquillo».
Mercoledì arriva l'autorizzazione ma vale per il giorno successivo. Ma
Stefano muore all'alba. All'ora di pranzo - un bel po' di ore dopo -
arrivano i carabinieri a portare il dispostivo per la nomina di un
consulente di parte per gli "accertamenti urgenti non ripetibili",
l'autopsia.
C'è qualcosa che non quadra. Ilaria ha sempre più domande in testa e
nessuna risposta. La sera prima una volontaria le aveva telefonato per
riferire un messaggio di Stefano. Voleva parlare con suo cognato, il
marito di Ilaria, appunto. Il ragazzo cercava aiuto per affidare a
qualcuno la sua cagnetta. «Ma quando esco la rivoglio», aveva
precisato. Poi aveva chiesto un bibbia. «Noi siamo molto religiosi»,
conferma Ilaria. La volontaria non ha saputo dire granché delle
condizioni fisiche di Stefano. Dice che era sempre sotto il lenzuolo.
Dopo un'inutile corsa sotto la pioggia a Piazzale Clodio - «credevamo
fosse lì l'autopsia» - Ilaria e i suoi arrivano al Pertini. Una
dottoressa conferma la versione della volontaria: pare che Stefano
stesse per ore sotto le lenzuola. «Non si voleva nutrire - ha detto -
gli portavamo la carne ma lui la lasciava». E avrebbe rifiutato le
cure. Suonano beffarde le parole della dottoressa ai genitori che
nemmeno hanno potuto assistere un figlio moribondo: «Perché non vi
siete rivolti a noi?». Dopo un braccio di ferro col posto di polizia,
finalmente il pm autorizza i familiari a vedere la salma. Dietro il
vetro divisorio, Stefano rivela il viso deformato, nero, «come
bruciato». Un'occhio pesto, l'altro fuori dalle orbite, le ossa della
mascella spostate. «Per forza non mangiava!», esclama la sorella. Il
corpo era nascosto da un lenzuolo. L'autopsia è durata più di cinque
ore e stavolta il pm ha negato ai consulenti di parte di effettuare
foto. Ci saranno solo quelle del perito del pm.
All'uscita dall'obitorio il medico di parte avrà poche parole.
Conferma la natura traumatica degli ematomi sul viso ma nega emorragie
interne. Insomma, quelle botte non spiegherebbero la morte. Sarebbe
evidente una «sofferenza polmonare» ma per capire meglio si dovranno
aspettare gli esami istologici, le cartelle cliniche, i rilievi
tossicologici. Le domande di Ilaria sono troppe, e sempre più
inquietanti.
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